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martedì 26 maggio 2009

Il Paese dei resistenti a internet Elogio dell’Italia a banda lenta

Una decina di anni fa, quando per Il Giornale feci un’inchiesta su «L’idea anticonformista e la modernità», la geografia dei siti Internet era under quaranta, spalmata sulle grandi zone urbane e sulle regioni dotate di una consolidata struttura industriale, fenomeno e strumento elitario di relativa incidenza sociale e politica.
Da allora a oggi le cose non sono molto cambiate e il fatto che metà degli italiani, come appare ora dai dati resi noti, non sia un popolo di «navigatori della Rete» lo dice con la fredda realtà dei numeri. Sul perché si potrebbero dare molte spiegazioni, alcune tecniche, altre economiche e sociali, altre ancora generazionali, tutte plausibili e condivisibili, nonché sul persistere di un’Italia sotterranea e profonda, più provinciale che internazionale, moderna nella facciata, ma arcaica nei sentimenti, di cui spesso noi giornalisti tendiamo a dimenticarci persi e presi a inseguire l’attimo fuggente dell’attualità.
Apparentemente, dunque, in questo decennio il panorama non è mutato, eppure, se si va più a fondo mi sembra che per molti versi Internet sia stata un’occasione perduta, oppure un’occasione sprecata, la trasformazione di uno straordinario elemento di libertà in un qualcosa che sta fra il business, l’elettrodomestico e il passatempo...

A lungo mi sono illuso che questo strumento sarebbe piaciuto a Ernst Jünger, lo scrittore tedesco che nel secolo scorso ha meglio incarnato le pericolose seduzioni dell’anima faustiana occidentale, l’ascesa e il dominio della civiltà delle macchine, i rischi di un anti-umanismo. Lo pensavo perché mi sembrava la tecnica portata alla sofisticazione più estrema, la libertà elevata alla massima potenza. Strumento individuale, era un moltiplicatore aristocratico di democrazia, anarchico, rimandava a quella figura dell’Anarca, da lui teorizzata in un romanzo che si chiamava Eumeswill: il signore della forma, ostile alla demonia dell’economia, alla tirannia della scienza e della maggioranza. Gli adepti della «rete», insomma, come «gentiluomini telematici e vagabondi digitali. Hanno di fronte a loro la foresta ma non possono non dirsi mondani», secondo la bella definizione del sociologo Rino Germano.

La rivoluzione di Internet consisteva nel mettere sullo stesso piano, al più basso costo, tutte le idee come fosse un agorà telematica, una piazza della democrazia elettronica. Oppure, in una visione «rinascimentale», il massimo della modernità al servizio dell’intelligenza e della volontà di conoscenza umana, il massimo della libertà individuale in alternativa ai dogmi e alle chiese ricevute, il massimo del trasversalismo in un’epoca e in una società che vorrebbero cristallizzare le scelte e negare le opzioni.

Nel tempo queste possibilità sono andate sbiadendosi, da un lato in un accumulo illimitato di informazioni e di comunicazione dove navigando senza poter selezionare ciò che veramente interessava, si perdeva la rotta, dall’altro nella sua trasformazione in mezzo di servizio, utile, certo, ma non fondamentale e persino farraginoso. In più la «rete» si è fatta sfogatoio, mugugno, frustrazione, dove il confronto è quasi sempre scontro, lo scambio di opinioni è spesso scambio di insulti, più che dialoghi ci sono monologhi che si fronteggiano, più che democrazia c’è demagogia.